Affiancarsi ai giovani come piace a noi di Vinando è spesso un modo per farsi contaminare da quella loro energia frizzante ed esuberante di cui tutti abbiamo sempre un bisogno essenziale; vivere in modo gioioso e schietto può essere l’antidoto giusto per inseguire ciascuno i propri obiettivi superando con slancio le asperità quotidiane della vita.
Beh, se c’è un vino che riunisce tutti questi tratti giovanili in un’unica sinfonia questo è proprio il Lambrusco! Silvia Zucchi ne è una cultrice.
Silvia è cresciuta nella pianura emiliana, a San Prospero, in un lembo di terra modenese poco più a nord di Sorbara. Brillante, dinamica, attenta ascoltatrice, ha imparato con l’esperienza l’arte di fare vino e, dopo dieci anni di vendemmie con l’azienda di famiglia, ha deciso di mettersi in gioco con una propria linea personale di vini.
Nell’intervista che segue ecco il suo percorso, i suoi prodotti e i valori che la guidano.
Ciao Silvia, parlaci della vostra tradizione di famiglia, la tua formazione e il ruolo che ricopri in azienda.
Era la fine degli anni 50 quando nonno Bruno piantò i suoi primi vigneti su degli appezzamenti di terra lasciati in dote a nonna Maria Alma; incominciò così a produrre i primi Lambrusco commercializzati con il nome “Zucchi”. Il figlio Davide insieme alla moglie Maura, miei genitori, prendono le redini dell’azienda negli anni ’70 rinnovandola e portandola ai giorni nostri. Io rappresento la terza generazione di questo progetto che nei decenni è sempre progredito.
Nel 2010 mi sono diplomata in Veneto presso la nota Scuola di Enologia di Conegliano per poi rientrare e lavorare fin da subito in azienda dove ho iniziato ad applicarmi nelle diverse fasi del processo di produzione del vino apprendendo quindi tutti i passaggi del processo che porta alla sua realizzazione.
Sei dunque cresciuta in cantina lavorando ma anche viaggiando ed esplorando altre realtà; come ti hanno forgiato le esperienze che hai vissuto finora?
In azienda ho sempre fatto di tutto; non abbiamo agronomi o enologi con noi e questa è una condizione che mi ha permesso di crescere in fretta.
Mio padre è stato, ed è tuttora, il mio primo maestro, poi gli studi in una scuola importante, una rete di colleghi con i quali ho un confronto continuo e libero sono tutte situazioni che mi hanno portato dove sono ora e costruirmi un baglio che cerco sempre di evolvere.
Le migliorie tecnologiche e di metodo nel nostro settore sono continue e molto più rapide rispetto una volta pertanto essere aperti e dinamici rispetto l’aggiornamento diventa cruciale per mantenere standard elevati di produzione; per questo motivo investo molto nella mia formazione ma anche nel mantenere solide relazioni con colleghi che mi permettano uno scambio continuo di conoscenze, idee e supporto morale.
Sì, perché fare il vino significa spesso dover attraversare anche momenti e situazioni complesse che da solo faresti fatica ad affrontare; coltivando non solo la vite ma anche il fattore umano le possibilità di superare i momenti difficili aumentano.
C’è poi da considerare un aspetto legato al confronto con le generazioni che mi precedono, irrinunciabile ma non sempre così facile; spesso risulta più semplice scegliere di continuare sulla strada già battuta piuttosto che affrontare il cambiamento e in questo senso, il venirsi incontro, per quanto possa essere importante, non è sempre qualcosa che riesce con efficacia ma provarci è doveroso perché il mondo va avanti e l’alternativa è finire ai margini.
Hai atteso dieci vendemmie prima di creare una tua linea per poi puntare su vini solamente in purezza. Raccontaci come è andata e qual è il tuo approccio alla produzione del Lambrusco di Sorbara.
Accumulare vendemmie significa progredire nel costruirsi un’esperienza che ti insegna a comprendere sempre meglio le potenzialità dei diversi vitigni che hai scelto di lavorare
La grande famiglia dei vitigni Lambrusco si declina in tantissime sfumature tipologiche di questo vino. Noi siamo nella parte centrale della pianura modenese e personalmente ho deciso di concentrare le mie energie sul Lambrusco di Sorbara ovvero una tipologia che, anche nelle annate difficili, è comunque in grado di produrre grandi vini che si presentano di colore rosato (più chiaro rispetto gli altri tipi di Lambrusco), freschi al palato, giovani e ricchi di quella acidità che funge da conservante naturale; una varietà pregiata che produce basse rese in vigneto.
La missione che mi sono posta è divulgare e far comprendere questa tipologia che vado a produrre con tre metodi diversi (classico, rifermentato e charmat); a seconda delle annate può dare risultati più o meno intensi ma, nei tre metodi, cerco sempre di valorizzare al massimo la varietà.
Con il metodo classico cerco la finezza attraverso un vino che può anche maturare nel tempo, il rifermentato in bottiglia invece è il vino della tradizione ma lavorato con approccio moderno ed infine lo charmat che rappresenta il vino d’annata dove le fermentazioni in autoclave non superano i tre mesi (sono corte) per evitare aggiunte al vino nelle successive lavorazioni meccaniche conservando così i suoi profumi varietali e in generale la sua espressione aromatica originale.
Con proposte adeguate e la divulgazione della conoscenza ai consumatori diventa quindi importante sdoganare il fatto per il quale il Lambrusco debba essere per forza un “vinello di pronta beva”, dolce e dalla poca acidità. Il Sorbara non ha niente di tutto ciò e l’idea di valorizzarlo mi gratifica.
Il Lambrusco è considerato il vino rosso frizzante italiano per eccellenza. Negli anni ’80 il successo indiscriminato, una produzione di larga scala e rese altissime: poi la rivincita nella direzione della qualità. Cosa è successo?
Il Lambrusco è il vitigno più diffuso in Emilia; tanti ne parlano ma pochi lo conoscono in profondità riconoscendone tipologie, diverse lavorazioni, colore e tutte le diverse sfumature aromatiche che poi entrano nel calice.
Fino agli anni sessanta era un vino artigianale che veniva fatto rifermentare in bottiglia, un vino tendenzialmente venduto sfuso dalle cantine e imbottigliato a casa. A partire dagli anni settanta si è iniziato a fare vinificazioni più attente con processi di spumantizzazione in autoclave; da qui iniziò la sua ascesa. Negli anni novanta però, data la grande richiesta del mercato estero, se ne massimizzò la produzione a discapito della qualità.
Al giorno d’oggi però quella tendenza si è fortunatamente invertita e molti sono i produttori piccoli e grandi che stanno investendo sulla qualità del prodotto in abbinamento alla valorizzazione del territorio. Sì, il vino è la mia passione e dedicarmi ad esso credo faccia parte del mio destino.
Qual’è il vero valore di essere piccoli produttori e come vedi il rapporto tra tradizione e innovazione nel settore vino considerato anche il contesto dell’azienda famigliare nella quale operi?
L’ultimo periodo storico non è stato semplice per noi causa fattori esterni tra i quali la pandemia; per la piccola realtà che rappresentiamo nel nostro caso è stato cruciale avere sempre curato bene il rapporto con i clienti diretti che sono un valore aggiunto sicuro ed irrinunciabile.
Le piccole aziende come la nostra hanno inoltre la capacità di adattarsi e reinventarsi velocemente nelle difficoltà e nell’imprevisto ma chiaramente hanno anche i loro punti deboli: ad esempio complessa è la gestione della rete di vendita, quando i volumi prodotti non sono grandi basta che un distributore importante si ritiri e si crea un problema al quale diventa difficile trovare soluzione in modo rapido.
Vino e storica cultura culinaria modenese; come e quanto si supportano a vicenda e quali sono i rapporti di forza?
Rispondo dando rilievo al fatto che oggi finalmente il Lambrusco sta iniziando ad avere il meritato spazio anche nelle carte dei vini; certo, è facile riscontrare ancora quanto a volte l’intera Emila-Romagna non sia presente come proposta enologica in certi ristoranti ma, per fortuna, è questa una tendenza in evoluzione.
Parmigiano Reggiano, aceto balsamico e altre nostre eccellenze gastronomiche hanno sempre dominato la proposta ricettiva del territorio e, nel contempo, le cantine locali per dimensioni e filosofia gestionale storicamente non erano attrezzate per accogliere il turismo enogastronomico; il fattore vino, rispetto il cibo, è sempre venuto dopo.
Grandi chef come Massimo Bottura hanno sdoganato il Lambrusco in abbinamento con grandi piatti conferendogli giusta dignità e riconoscimento come simbolo del nostro territorio; questo è stato un grande incentivo per quel vento di cambiamento che ora stiamo cercando noi tutti produttori di alimentare.
Quali sono stati ad oggi i tuoi personali momenti di massima difficoltà e gratificazione lavorando nel settore del vino?
Noi vignaioli lavoriamo all’aperto e per definizione siamo soggetti a tutte le variabili del clima che ci costringono in continuo adattamento: le occasioni di sconforto non mancano ma abbiamo le spalle larghe!
Devo dire però che il terremoto del 2012 è stato un momento di reale paura, un anno difficile dove ho pensato anche di fuggire ad un certo punto; rientravamo in azienda per mettere in sicurezza le attrezzature e delle nuove scosse ci costringevano ad evacuare, il tutto nell’incertezza di poter raccogliere o meno la successiva vendemmia. Da maggio a settembre è stata un’incognita totale.
Nel contempo le gratificazioni sono tante e tra queste la maggiore il veder finire le scorte di vino in cantina; constatare che i tuoi sacrifici e la tua passione viene ripagata con il gradimento delle persone è impagabile ancor più se fidelizzata e ricorrente negli anni.
Grazie Silvia per aver condiviso con noi l‘unicità della tua terra e la storia dello splendido percorso che stai facendo nel mondo del vino!
Post di: Emanuele Ciot